Progetto fotografico di Misha Pipercic
Intervista di Maria Serena Bongiovanni
“Oggi non è che un giorno qualunque di tutti i giorni che verranno. Ma quello che accadrà in tutti gli altri giorni che verranno può dipendere da quello che farai tu oggi.”
Lo scrittore vincitore del premio Nobel per la letteratura Ernest Hemingway scrisse questa frase nel 1940, nel suo romanzo “Per chi suona la campana”.
Hemingway usò queste parole per descrivere la morte, la guerra e le sue conseguenze, giorno dopo giorno, in una Spagna martoriata dal conflitto che durò dal 1936 al 1939. Questa frase dimostra che le parole possono fare la differenza. Poiché il corso della vita di ogni persona su questa terra è caratterizzato da transizioni molteplici e traiettorie mutevoli. Tutto ciò che fai può cambiare tutto ciò che farai e come sarai.
Le parole sanno essere forti, dolorose e immortali nella memoria.
E in tutto questo, quale funzione possono avere le immagini?
Pensiamo a tutte le immagini di tragedie che sono passate davanti ai nostri occhi.
Possono raccontare gli stravolgimenti e gli orrori causati dalle guerre? E il cambiamento nella vita di ogni singola persona?
Possono sottolineare efficacemente quanto alla fine dei conti siano tutte prive di senso? Rimane il dolore e… Cos’altro?
Questo è l’obiettivo di analisi e narrazione di “Once, when we were happy“, il primo libro fotografico del fotografo serbo-olandese Misha Pipercic.
Misha Pipercic è nato a Sarajevo, nella Repubblica Federale Socialista Iugoslava, oggi capitale della Bosnia-Erzegovina, nel giorno in cui le ultime truppe dell’URSS hanno lasciato la Cecoslovacchia. Nel 1991 si è spostato ad Amsterdam, dove ha studiato Fotografia applicata e Ingegneria del suono e dove vive tuttora.
Forse il nostro Pipercic ha avuto una sorta di presentimento sull’arrivo della guerra proprio a casa sua: infatti nell’aprile del 1992 la guerra raggiunse Sarajevo.
Dopo la guerra, anche i suoi genitori lasciarono Sarajevo e si trasferirono nei Paesi Bassi, dove ottennero l’asilo politico.
Tra le cose che hanno portato con loro c’erano gli album fotografici di famiglia.
Ed è questo il punto di partenza di questa storia.
Il foto libro di Misha Pipercic è un’opera sulle emozioni. Ciò di cui si fanno portatrici le sue immagini sono narrazioni molto puntuali. Su che cosa? Sulla sopravvivenza, sul passato, sul presente e sul futuro, sulle paure, sulla comprensione e incomprensione, sulle conseguenze della guerra, sul non dimenticare le persone care, sulle ferite e sulla guarigione.
Potrebbe sembrare un’opera privata ma non è solo questo. Certamente è un libro intimo e autobiografico ma le fotografie sono soprattutto documenti storici di un paese, una civiltà, una comunità che non esiste più e di un’idea politica che potrebbe essere stata cancellata definitivamente dall’Europa.
Misha Pipercic ci trasporta nel tempo e nel luogo (e quindi nel valore) di ogni singolo scatto. Così mentre guardiamo il libro riceviamo un invito a cambiare il modo in cui saremo domani. L’invito prende forma dalla comprensione del valore delle persone, degli edifici e delle immagini del passato e del presente rappresentati nelle foto: richiedono empatia e amore.
Sei pronto per recepire questo tipo di consapevolezza?
In tal caso, scoprirai come tutte queste sensazione e riflessioni sono diventate un libro fotografico lungo questa intervista al fotografo Misha Pipercic.
Alla scoperta del fotolibro
Caro Misha, come è iniziata la realizzazione di “Once, when we were happy“?
Avevo bisogno di esprimermi e di raccontare la mia storia, la storia dei miei genitori e della gente comune di Sarajevo, della Bosnia e della Jugoslavia.
Mi sto ancora chiedendo: perché abbiamo avuto questa guerra? Molti di noi hanno perso molto. Io ho perso mio fratello quando aveva solo 21 anni mentre i miei genitori erano coinvolti nella guerra a Sarajevo.
Quando i miei genitori sono arrivati in Olanda dopo la guerra in Bosnia, le uniche cose che avevano portato con loro erano le foto scattate prima della guerra, i nostri album di famiglia. Ho deciso di portare avanti la tradizione di famiglia e di completare quei vecchi album fotografici. Così li ho scansionati e sono andato alla ricerca delle persone che avevano fatto parte della mia giovinezza. Purtroppo non sono riuscito a trovarli tutti ma ho scattato nuove foto di varie persone e diversi luoghi nel mio paese d’origine.
Alla fine di questa lunga ricerca mi sono ritrovato con una combinazione di foto vecchie e nuove, ritratti, immagini urbane, foto di paesaggi e scatti quasi astratti. Tutto questo materiale è confluito nel mio libro “Once, when we were happy“.
In un’intervista per Pf next Evelien Lindeboom ha dichiarato che “il progetto è diventato un lavoro molto intimo e poetico, pieno di ricordi tanto dolorosi quanto affettuosi, in cui la famiglia e la patria rivestono i ruoli principali”.
“Spero che le persone possano riconoscere quanto sia grave la guerra, ma anche quanto la vita sia meravigliosa”.
Ho trovato questa frase nel tuo libro e ne sono rimasta davvero colpita.
Per te, il ruolo della fotografia è quello di creare consapevolezza su questioni sociali?
Questo libro non è solo una storia di migrazione e non è solo una storia sulla guerra, sulla Bosnia e l’ex Jugoslavia. Non mi sono limitato a questo, perché la storia sarebbe risultata troppo povera e triste. Non voglio che il libro sia solo triste, perché la vita non è solo questo.
So che molte persone non amano i migranti. In realtà, siamo tutti migranti, oggi siamo qui e un domani magari non lo siamo più. Forse questa è una storia sulla transitorietà. Nel libro descrivo gli eventi della mia vita. I miei sentimenti, il mio amore, le mie paure e ne faccio dono ai lettori.
Accetto, analizzo, perdono, mi diverto, seguo e fotografo gli eventi della mia vita, le vite di parenti, amici, passanti bosniaci, serbi, croati, olandesi e altri di cui non importa definire le religioni e la nazionalità.
Quando scatto una fotografia, non voglio semplicemente documentare l’istante, voglio farlo sempre in modo poetico e magico in modo da non annoiarti mai.
“I fiori hanno guarito le mie ferite”
Sono presenti diversi fiori tra i tuoi scatti. Vuoi dirci di più sul loro significato?
L’intero progetto mi sembrava spesso incredibilmente triste, quindi mi sono detto che se la sofferenza della gente fosse diventata troppa, avrei iniziato a fotografare paesaggi e natura. Per questo primi piani di alberi, fiori, petali creano un turbinio di colori all’interno del libro e lo rendono più sopportabile. Risulterebbe semplicemente troppo pesante se mancasse il contributo dato dalla spensieratezza e leggerezza della natura.
I fiori hanno guarito le mie ferite.
Hai detto di aver scattato ogni foto con amore e questo ha reso il libro un’opera ottimista.
Diresti di averlo fatto più per te o per i lettori?
Probabilmente è più per lo spettatore perché io lo percepisco più che altro come parte stessa della mia vita. L’osservatore non sa quel che ho fatto durante il processo di realizzazione, vede solo il risultato finale.
“Il progetto è diventato un lavoro molto intimo e poetico, pieno di ricordi tanto dolorosi quanto affettuosi, in cui la famiglia e la patria rivestono i ruoli principali”
Evelien Lindeboom
Hai lavorato con mezzi diversi come le pellicole e lo scanner e hai scattato solo in analogico. C’è un motivo specifico dietro questa scelta? In che modo la tecnologia può plasmare il tuo lavoro e modellare la resa dei tuoi sentimenti?
Ho usato macchine fotografiche e pellicole analogiche e ho lavorato solo con la luce naturale al fine di produrre immagini dall’aspetto naturale e uniforme che permettessero di ottenere un’estetica più ruvida, a volte onirica e poetica. Tutti gli altri dettagli tecnici mi sono serviti per convertire le idee in qualcosa che potessi presentare all’osservatore secondo il mio ideale espressivo.
Il progetto “Once, When we were happy” è iniziato nel 2013 ed è stato completato a marzo 2019 con la pubblicazione del libro. La percezione della tua terra natale è cambiata in questi anni? Pensi che l’immagine socio-culturale sia cambiata anche nel resto del mondo?
La situazione in Bosnia ed Erzegovina e nei Balcani in generale è davvero molto complicata. Vivo ad Amsterdam ed è per questo che posso guardare la Bosnia da una sorta di vista aerea. La Bosnia è bellissima e io la amo sa so che ha bisogno di aiuto. A soffrire di più è soprattutto la cultura: la Bosnia fa parte dell’Europa ma sembra completamente dimenticata dall’UE e spesso sembra trovarsi su un altro pianeta.
Una curiosità da amante dei libri, pensi che continuerai a realizzare libri fotografici?
Penso di sì perché mi piace il libro come mezzo espressivo. Mi dà la sensazione che la storia sia finita. L’intero processo di creazione di un libro fotografico è complesso e impegnativo ma mi godo ogni minuto.
In questo momento sto lavorando a tre progetti. Sono molto curioso di sapere quale di loro si trasformerà in libro, ma in realtà vorrei che tutti e tre diventassero libri.
“Penso che questo libro possa essere un documento importante per la Bosnia ed Erzegovina, ma anche per l’ex Jugoslavia, per le relazioni umane e per una migliore comprensione tra le ex nazioni jugoslave e le nazioni della Comunità Europea.
Con questo libro voglio creare occasioni di dialogo tra le persone dell’ex Jugoslavia e le persone all’estero interessate alla Bosnia e ad altre parti dell’ex Jugoslavia.
Ma non finisce qui. Questo libro mostra le assurdità e i controsensi della guerra, nonché le sue conseguenze sociali e culturali.”
GRAZIE MISHA.
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Photo Credit © Misha Pipercic
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